Barbara Fusco ha studiato presso il Dipartimento di Studi Orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma e si è laureata nel 1986.
Ha iniziato la pratica del Taiji Quan nel 1985, formandosi con i migliori insegnanti di questa disciplina in Cina e Giappone.
Dal 1992 al 1998 è stata allieva del Maestro Chen Xiaowang, discendente diretto e rappresentante ufficiale dello stile Chen.
Ha seguito fino al 2010 corsi e seminari con il MaestroCristiano Vittorioso.
E’ conduttrice abilitata di classi di esercizi di bioenergetica e Counsellor a Mediazione Corporea ad indirizzo Bioenergetico, Trainer di Focusing (Focusing Institute di New York) e istruttrice di Daoyin.
Attualmente studia Zhineng Qigong con i Maestri Ling Ming e Lu Zhengdao, con il Maestro Zhen Qingchuan (autore del libro “Psicologia delle percezioni interiori”) e le Taiji ball con Zhao Liangzhen, tutti allievi del Dott. Pang Ming (fondatore del Zhineng Qigong).
Insegna dal 1994.
Il mio paese dell’anima:
un viaggio appassionante nella pratica: 1985-2012
(di Barbara Fusco)
Sono trascorsi più di dieci anni dalla stesura di questo scritto.
Da allora è passata così tanta acqua sotto i ponti, che rileggendolo oggi ho avuto la tentazione di eliminarlo.
I “fatti” sono quelli, ma il filo che li lega, il modo di vederli e considerarli non mi appartengono più. Poi ho deciso di conservarlo. Cosa può testimoniare il cammino fatto più che girarsi indietro e sorridere di se stessi, empaticamente, prendendo distanza da modi di essere che abbiano lasciato andare?
Se fra qualche anno sorriderò di nuovo pensando ad oggi, sarò contenta. Vorrà dire che sono ancora in cammino, che non mi sono fermata.
Il Maestro Pang Ming ci ricorda che la pratica del Qigong ha come primo obiettivo quello di renderci liberi. Diventare consapevoli del nostro “sistema di riferimento”, come lo chiama, il nostro modo di vedere e percepire il mondo e prenderne distanza.
Quando riusciamo a non identificarci con quel nostro ego che cerca riconoscimento per tenersi a galla, per emergere, ci mettiamo sulla strada che porta al nostro sé. E così, per qualche istante, può accadere che ci sentiamo in pace.
Non abbiamo bisogno di niente. Niente più di un respiro. Il problemi si dissolvono, l’ansia è un ricordo lontanissimo, i dolori passano. Il corpo è solo Qi, energia, Senza tempo, senza spazio. Siamo liberi. Poi basta un vecchio pensiero, un ricordo, un’abitudine persistente, e ci troviamo di nuovo imbrigliati nel vortice, nella visione del nostro ego.
Tornano le sensazioni dolorose e noi pensiamo di essere veramente tutto lì. Tutto in quel corpo, in quel volto, in quella voce, in quella storia. Ci sprofondiamo dentro. Ma continuiamo a praticare. Di giorno in giorno. Consapevoli. Pazienti. Umili. Senza giudizio. I momenti di consapevolezza e libertà sempre un pizzico più lunghi, gli scivoloni meno profondi. E intanto riscriviamo la nostra storia…
Quanta parte di pratica è dettata dal nostro io e quanta ascolta veramente le ragioni del corpo?
(Settembre 2021)
Quest’anno, iniziando le lezioni sul barcone sul Tevere, mi sono ritrovata a praticare di nuovo, dopo molto tempo, davanti ad uno specchio. Erano passati tanti anni da quando mi ero vista l’ultima volta. La mia immagine era ancora lì, nella mia memoria. Ben più giovane, capelli neri, decisamente meno rughe….Eppure ho ricevuto una bella sensazione da quella donna di mezza età che si muoveva lì davanti a me. La sua postura era migliorata, scesa nella pancia e nelle anche. Questo rendeva i suoi movimenti ed il suo corpo più morbidi e fluidi rispetto al passato. A guardarla da lontano, senza occhiali come faccio sempre, l’energia che esprimeva era armonica, rotonda, i suoi piedi erano ben radicati e forti. Non era più quel fuscello fragile di qualche anno prima. Aveva perso freschezza, lo vedevo anche così in penombra e senza occhiali, ma quello che aveva acquistato per me valeva molto di più. Avevo da poco compiuto cinquanta anni e l’incontro con la mia pratica allo specchio credo sia stato il regalo più bello. Fuori dalle finestre scorreva il fiume ed io ho sentito la mia vita e la mia pratica rappresentata in quel vascello illuminato che galleggiava sul fiume scuro e tranquillo della notte. Ho sempre avuto paura dello scorerre del tempo e delle cose. In quel momento ho capito con maggiore chiarezza che dono immenso fosse stata la pratica per la mia vita. Avevo qualcosa che non era destinato a diminuire nel tempo e con l’età. Avevo qualcosa, come mi stava dimostrando lo specchio, che a cinquantanni può essere molto migliore che a venti o trenta o quaranta. E la differenza dipendeva solo da me.
Quando ho iniziato a praticare in uno scantinato a San Lorenzo, presso l’Associazione Amici della Cina con Cristiano Vittorioso, avevo 24 anni e mi stavo per laureare. Era il 1985, avevo vinto una borsa di studio di due anni per il Giappone e tutti, a partire da me, si aspettavano una brillante carriera.
…. All’inizio il Taiji mi ha fatto sperimentare una dolce sensazione di rilassamento che non avevo mai conosciuto. Era come una coccola. Mi resi conto che quando uscivo dalla lezione, il mio volto era cambiato rispetto a quando ero entrata. Era più rotondo, più morbido, meno contratto e distorto dall’angoscia e dall’ansia. Iniziai a praticare con un sottile senso di colpa per il tempo che sottraevo allo studio e al dovere. Il mio benessere personale non faceva parte dei miei progetti… Dopo circa un anno che praticavo, vivevo in Giappone e l’allenamento iniziò a portarmi un senso di leggerezza e libertà. Era come correre all’aperto in primavera, farsi una passeggiata sulla spiaggia con l’aria pulita e i gabbiani che volano, come stare in finestra e guardare le nuvole che passano davanti alla luna piena. L’alternativa era il mal di schiena ed una sensazione di prigione del mio corpo. Come se mi mancasse l’aria, perché stavo troppo stretta in una corazza. Così iniziai sempre di più a lasciare libri e dizionari sul tavolo e scappare fuori a praticare. Per un periodo lo studio e la pratica si contesero il mio tempo. Per un lungo periodo molto tormentato. Lo studio voleva tutto. Energia, tempo, pensieri, progetti. Lo studio e la futura carriera che stavo preparando. La pratica però chiedeva sempre un briciolo di più e mi allettava con la sua freschezza, con il benessere che mi aveva fatto trovare, con l’agio che dava al mio corpo e alla mia schiena, con quella meravigliosa sensazione di aria fresca che sentivo entrarmi dentro, in ogni cellula. Ormai avevo capito che non era possibile per me passare tante ore al tavolo sui libri. Un giorno andai a prendere il mio compagno alla lezione di Taiji che si teneva al Budôkan di Tokyo, il palazztto dello sport per le arti marziali. In una palestra adiacente alla sua, c’era una donna che insegnava. Era cinese e non parlava una parola di giapponese, ma, ciò nonostante, la sua energia era sufficiente a comunicare e far muovere una buona cinquantina di persone. Ne rimasi affascinata. Sentivo che la sua energia era forte, pulita, come un pugno dato bene, che fende l’aria con un sibilo senza forza, senza ostacoli. Energia pura…. Fu così che, guardando quell’insegnante (si rivelò poi essere una ex campionessa cinese di Kung Fu), capii che quello che cercavo non era tanto lo studio in sè, che pur mi piaceva tantissimo, ma un processo di evoluzione, di raffinamento diciamo, di crescita. La pratica aveva iniziato a porre i suoi semi. Iniziai anche io ad andare a lezione una volta alla settimana. Avevo trovato una scuola con una maestra molto simpatica, Harumi Nakano, che si trovava nel centro di Tokyo e per raggiungerla mi facevo circa un’ora e mezza di metro nell’ora di punta, quando i famosi inservienti con i guanti bianchi spingono le persone per far chiudere le porte. In pochi mesi ci insegnò una montagna di forme. Allora in Giappone studiare Taiji voleva dire essenzialmente imparare una serie di forme. Ricordo ancora lo stupore che si diffuse nella scuola quando una insegnante che si stava preparando ai campionati nazionali di Taiji del Giappone tornò da un periodo di studio in Cina a Chen Jiagou. Aveva passato circa due settimane, otto ore al giorno, a studiare Zhansi jin (gli esercizi fondamentali per la circolazione dell’energia interna). Neanche l’ombra di una forma. Era affranta e mortificata. Non si parlava di altro. A Chen jia gou, il villaggio originario del Taiji della famiglia Chen, comunque, sapevano quel che facevano, perché lei arrivò prima alla gara di pao cui. Mi trovai così coivolta, direi senza averlo del tutto scelto, in un livello di allenamento notevole. Il mio compagno studiava e praticava Taiji da più di dieci anni ed io, per non rallentare le sue lezioni, mi facevo in quattro. L’atmosfera che si respirava alla scuola era completamente diversa da quella che c’era fuori, si trattasse di università, di amici o qualunque altro ambiente giapponese. Solo lì dentro sentivo un’aria accogliente, rilassata, non formale. Solo lì dentro mi sentivo davvero bene. Questo, ovviamente, diede ancora maggiore impulso ai mie allenamenti.
Appena tornata in Italia, andai a lavorare alla televisione giapponese. Era un lavoro brillante. Ero la corrispondente in Italia della rete televisiva pubblica ed i miei programmi, pensati, organizzati, scritti e realizzati da me, venivano trasmessi in Giappone con ampie lodi della redazione. C’era di che esserne fieri. Il tutto anche molto ben pagato. Ma il mio corpo non respirava. Abitavo ad Ostia, davanti al mare. La mattina mi alzavo presto e mi allenavo una mezz’oretta. Poi, quando iniziavo a sentire quella sensazione di aria e respiro nel corpo, dovevo cambiarmi, prendere un affollatissimo treno, poi la metro B, poi la metro A…..Il lavoro mi prendeva sempre di più e piano piano non fui in grado neppure di allenarmi un attimo la mattina. Arrivavo al sabato sfinita e la mia pratica si era ridotta alla domenica mattina. Iniziai a sentire un senso di insoddisfazione fisica, ancor prima che di testa. Allora si fumava in ufficio. Arrivavo la mattina e trovavo i mozziconi delle sigarette del cameraman e degli altri collaboratori, la puzza dei giornali vecchi ammucchiati, dei vari computer, televisioni, macchinari. Per non dire del venerdì, giorno di montaggio del programma. Passavo tutto il giorno in sala montaggio, con i montatori, cameraman ecc. che fumavano una sigaretta dopo l’altra, fino a creare una nuvola fitta ed irrespirabile. Inoltre sentivo il tempo che passava ed un senso sempre più forte e pressante di insoddisfazione. Non era quello che stavo cercando, non era quello che volevo dalla mia vita. Ogni tanto mi chiedevo: se sapessi che ho ancora solo un anno di vita, lo trascorrerei così? La risposta era un no che si prolungava con dieci o finali e un urlo.
Allora decisi. Mi offrirono un lavoro part-time alla biblioteca dell’Istituto Giapponese. Avrei finalmente potuto allenarmi tutta la mattina. Mi sentivo la persona più felice del mondo! La pratica aveva vinto la sua battaglia. Durante le vacanze estive andammo a studiare in Cina, a Chen Jia Gou, con il Maestro Zhu Tiancai, uno dei quattro depositari dello stile Chen. Per l’ultimo tratto di strada non trovammo altro che un carretto sgangherato che ci caricò insieme alla merce. Bussai alla casa del Maestro completamente coperta di polvere. Dovevo essere uno spettacolo miserabile, perché prima ancora dei saluti e convenevoli, la gentilissima moglie mi accompagnò a sciacquarmi almeno la faccia. Quando mi guardai allo specchio capii. Avevo i capelli bianchi di polvere, vestiti bianchi di polvere. Solo i denti e gli occhi spiccavano dal fitto velo bianco. … Fu una grande esperienza. Facevamo lezione mattina e pomeriggio in una palestra con il pavimento in terra battuta. Il Maestro ci aveva prestato una biciletta da usare in due e con quella andavamo avanti e indietro, due volte al giorno, dalla palestra all’unico ostello disponibile della zona. Avevamo l’acqua calda per lavarci circa qundici minuti al giorno. Una cameriera energica bussava alla porta e noi ci precipitavamo a lavarci buttandoci secchiate di acqua addosso, attenti a non sfiorare le superfici di una vasca da bagno decisamente vissuta. Di quel periodo di studio mi è rimasta una sensazione di grande semplicità e benessere fisico. Non c’era né tempo né energia per fare altro che allenarsi, cercare di non sciogliersi completamente nel sudore e riuscire a mangiare qualcosa.
Gli anni che seguirono furono molto impegnativi. La mia vita ruotava intorno alla pratica. La mattina mi alzavo presto. Si iniziava con la meditazione. Poi, quando il tempo non era proibitivo, ci si spostava in pineta, dove si procedeva con il Qi Gong, la palla, e poi tutta la pratica del Taiji, con le diverse sequenze, Lao Jia, Pao cuei, la spada… In caso di pioggia si praticava in casa, in una stanza lasciata appositamente vuota. Poi io scappavo a lavoro e la sera spesso c’era la palestra. Potrei chiamare quegli anni il periodo della “mela di mezzanotte”, perché tra palestra, pratica e viaggi da pendolari, ci riducevamo sempre a cenare tardissimo. Il toc della mela aperta in due dal coletllo, con la quale chiudevamo la cena, coincideva spesso con lo scoccare della mezzaotte….Eravamo un gruppo di amici e praticanti, sette, otto, e condividevamo buona parte della vita e della pratica. Avevamo gli stessi sogni, la stessa “febbre” e sete di energia e crescita. Eravamo molto affiatati nella pratica, ed in quegli anni novanta eseguimmo diverse dimostrazioni pubbliche, anche in un affollatissimo Palazzeto delle Arti Marziali di Ostia con schermi giganti che riproducevano le nostre immagini. Ricordo ancora gli allenamenti, il terrore prima dell’inizio e poi più niente. Solo la forma che si faceva da sola, senza quasi il nostro intervento. Come un fiume che ci trasportava, nonostante la paura, nostante la timidezza. La corrente che creavamo insieme, che tante volte avevamo allenato e creato, era più forte di tutto e semplicemente ci portava. …
La prima volta che seguii delle lezioni con Chen Xiao Wang, andammo in Svizzera per delle lezioni private. Abituati ai nostri ritmi e standard, gli chiedemmo di correggerci tutta la sequenza delle 38. Lui non si scompose ed acconsentì. Dopo poche correzioni, tuttavia, ci si aprì un nuovo universo. Per la prima volta sperimentai la sensazione dell’energia che fluisce calda e morbida nel corpo. Fu come un’illuminazione. Comprendemmo che quello era l’essenziale, quella percezione dell’energia. Cambiammo programma. Solo zhan si zin (esercizi fondamentali) e la palla. Master Chen ci prese in giro all’infinito, ridacchiando e ripetendo di continuo, “ma come, non volevate fare tutte le 38?”. Eravamo ancora piccoli e tanto inesperti! Da allora iniziammo ad organizzare i suoi seminari e lezioni private in Italia. Alloggiagava a casa nostra. Dopo un seminario dedicato alla palla ed alla posizione iniziale, mi resi conto di non essere più sicura neanche di sapere camminare e stare in piedi. Ogni minimo gesto della mano e delle dita, ogni respiro, ogni passo, tutto veniva corretto, rivisto, ripetuto all’infinito, scomposto ed analizzato. Ci volevano una pazienza, una disponibilità ed umiltà infinite, oltre ad una grande energia perché a volte Master Chen ci lasciava in una posizione di quelle basse, scomode, per un tempo che alle nostre gambe e ai miei nervi sembrava davvero oltre l’infinito…. Nell’estate del 1994 andammo in Australia. Master Chen si era trasferito lì. Apprezzava molto le mie doti culinarie e così ci offrì vitto e alloggio gratis in cambio di una buona cucina. Studiammo con lui due settimane. Ore e ore soltanto a fare la palla e i fondamentali. Le piante del suo giardino si stagliavano intorno a noi sul cielo blu e trasparente di Siney in inverno, mentre grandi pappagalli colorati ci svolazzavano intorno. Intanto l’energia trovava la sua strada, superava il nodo più ostile del bacino e scendeva fino a piedi, come una colata calda e densa…. Da quando lo studio era approdato in Cina o con i vari maestri cinesi qui in Italia o all’estero, la pratica e le lezioni di Taiji avevano smesso di essere una coccola. L’energia che sempre più riuscivo a percepire grazie al lavoro minuzioso e millimetrico di Master Chen, dava una sensazione del corpo e della mente così diversa, una percezione della realtà così altra, che creava una sorta di dipendenza, una sete o fame che era disposta a tutto pur di averne sempre di più…. In seguito, e con molto lavoro e difficoltà, compresi che un aspetto del disagio che iniziai ad avvertire quel periodo era la quasi totale impossibilità di esprimere i miei sentimenti, fossero di gioia, di rabbia (allora sicuramente il sentimento più frequente), di paura o altro. Mi sentivo imprigionata in una sorta di perbenismo dei sentimenti. Solo la serenità, il sorriso e la pace universale mi sembravano ammessi in quel mondo. Non mi sembrava possibile provare qualcosa di diverso, tipo un moto di impazienza, una scoppio di rabbia… Non trovavo spazio per un ascolto del corpo nel senso della debolezza, della fragilità, del dolore. Questo aspetto mi creò diversi problemi e il mio disagio era più forte di qualsiasi tentativo di gestirlo attraverso questo tipo di pratiche. Ricordo il grande maestro di Qi Gong Li Xiao Min che ogni volta, appena iniziavo a fare la palla, mi si avvicinava e, con l’aiuto dell’interprete, mi sussurrava di rilassare la mente. Sicuramente i miei pensieri facevano rumore per un’energia sensibile come la sua, ma nessuno dei suoi inviti mi ha mai aiutata a rilassarmi….. . Fu allora che i miei esercizi della palla iniziarono ad essere tutti inondati dalle lacrime. Appena mi fermavo e lasciavo andare qualcosa, appena l’energia iniziava a fare il suo lavoro, le emozioni sempre represse e sepolte emergevano, portando con sé fiumi di lacrime. Era una piccola presa di contatto con il dolore in cui vivevo, che però non trovava mai un seguito, un sostegno. Era come un messaggio di sos lanciato da un naufrago e lasciato andare così, abbandonato ed inascoltato, alla deriva tra le onde. Con il senno di poi e l’esperienza attuale, posso dire che l’energia che aveva iniziato a scorrere, stava sciogliendo dei blocchi emotivi, dei dolori passati, pietrificati e profondi, che venivano a galla mio malgrado e con i quali non sapevo assolutamente cosa fare. D’altra parte, il Taiji non prevede nessun intervento rispetto alle emozioni, tanto che l’unica cosa che rimaneva da fare al povero Master Chen era fornirmi di scottex e fazzoletti di carta per soffiarmi il naso. Ricordo bene la sensazione di sconforto che provavo. Era un dolorosissimo senso di inadeguatezza e di impotenza. Per quanto infatti mi applicassi con tutta la mia forza di volontà, la mia costanza, il mio impegno, la mia intera vita, non riuscivo ad essere serena e tranquilla, non riuscivo a rilassare e svuotare la mente, non riuscivo a fare una sola palla senza piangere, senza provare quello sconforto. Fu solo quando lessi, diversi anni dopo, i libri di Alexander Lowen che compresi il mio dramma e, devo dire, ebbi un sincero moto di pietà per me stessa per quei lunghi anni di conflitto e deserto affettivo che avevo vissuto. Alcune frasi di Lowen furono per me davvero illuminanti: “Nessun tentativo di superare la perdita e la sofferenza del passato con la volontà può funzionare. Il suo fallimento perpetua la disperazione….Arrendersi al corpo e ai suoi sentimenti era qualcosa che non potevo fare. Fare è l’opposto di arrendersi. Fare è una funzione dell’Io, mentre arrendersi al corpo esige l’abbandono dell’Io….Abbandonarsi non è qualcosa che si possa fare con un atto di volontà, in quanto implica proprio una rinucia alla volontà…..Ogni muscolo cronicamente teso del nostro corpo è un muscolo spaventato, altrimenti non si opporebbe così tenacemente al fluire dei sentimenti e della vita…”. In seguito trovai molti altri riscontri alla mia esperienza. Il cambiamento energetico, il cedere della tensione di alcune parti strategiche del corpo, portavano a galla sentimenti, emozioni e paure che vi erano state congelate. Non avendo un sostegno ed una preparazione adeguata, potevo solo aggiungere senso di inadeguatezza a senso di inadeguatezza, senso di colpa a senso di colpa. Era un argomento di più per convincermi che non andavo bene, che dentro di me c’era qualcosa di sbagliato e quindi che, tutto sommato, facevo bene a stare chiusa, nascosta ed asserragliata, facevo bene a non lasciare andare.
Nel momento peggiore di questo periodo, alcune mie amiche e compagne di pratica, mi invitarono ad una conferenza del monaco vietnamita Tich Nat Han. La chiesa al Palatino, dove era organizzata la conferenza, era gremita di persone. Avrebbe tenuto un seminario residenziale di diversi giorni, le cui prenotazioni erano esaurite già da mesi e mesi. Soffocata dalla folla riuscii a sentire la vibrazione di pace che mandava il suo cuore. E ancora di più quella, dolce come una carezza, della monaca vietnamita che stava al suo fianco. Guidata sicuramente dall’alto, quasi senza pensare, mi lanciai verso il tavolo delle informazioni. Le mie amiche e mio marito mi dissero che era inutile, che era tutto esaurito da mesi. Ma io seguivo una forza interna che non ascoltava ragioni. “C’è un posto libero per il seminario?” chiesi. Il ragazzo al tavolo mi guardò negli occhi e mi rispose,”si, c’è appena stata una cancellazione”.
Negli anni della mia pratica avevo fatto tanta meditazione. Zen con mio marito e poi in Giappone, dove eravamo anche stati in un monastero, vipassana presso l’Ameco. Così pensavo che sarebbe stato un altro seminario di meditazione. Ma non fu così. Tich Nath Han ci guidò tutti, ed eravamo davvero tanti, a contattare il bambino che soffriva nascosto dentro di noi. Mi ricordo che ero seduta vicino ad un tipico esemplare di duro zen. Completamente rasato, con un corpo ed una gestualità secca, asciutta, di chi non lascia nessuno spiraglio alla dolcezza e all’indulgenza. Lo vidi piangere come un bambino e le sue lacrime avevano finalmente infranto la sua corazza di durezza e alienazione da sè. Io pinasi per tre giorni di seguito. Ricordo che non piangevo per qualcosa di particolare. Era come se finalmente, per la prima volta, la bambina che viveva asserragliata dentro di me, sgridata per le sue imperfezioni e piccolezze, ignorata nei suoi bisogni e nei suoi sentimenti, avesse trovato qualcuno in grado di ascoltare il suo dolore. E così anni e anni di silenzio, di abbandono e di sofferenza si scioglievano in quelle lacrime senza una parola, senza un pensiero. Era dolore puro, era l’incontro con quella piccola Barbara che avevo dentro.
I cambiamenti interiori non avvengono in un giorno, né semplicemente. Così tornai a richiudere il mio cuore e alla pratica e ci aggiunsi anche Castaneda. I suoi libri erano da sempre dei vademecum quotidiani che accompagnavano i nostri giorni. Li leggevamo a ripetizione, come se fossero libri di preghiere. I suoi insegnamenti dirigevano la nostra vita in ogni dettaglio. Almeno nell’intento, parola strategica per Castaneda. In quel tempo, parliamo oramai del 1996-97, si stavano diffondendo i suoi esercizi chiamati Tensegrità. Erano molto simili, per infiniti aspetti, al Qi Gong ed al Taiji, ma erano più duri, da veri guerrieri. Inserimmo anche quelli nella nostra pratica. Palestra la sera e pratica assidua durante il giorno. Un giorno venimmo a sapere che Castaneda avrebbe tenuto un seminario pubblico a Los Angeles. Come potevamo perdercelo? Non avrei potuto andarci. In biblioteca non era periodo di ferie. Decisi allora di lasciare anche la biblioteca, di dedicarmi interamente alla pratica e partì per gli Stati Uniti. A Los Angeles mi resi conto che quella non era la strada che cercavo. C’erano persone da tutto il mondo, come si può immaginare. Era il primo seminario pubblico di Carlos Castaneda. Eravamo più di mille persone in una struttura a piramide ed eseguivamo gli esercizi della Tensegrità, con un gruppo di persone che li mostrava da un piccolo palco al centro. Io avevo alle spalle già diversi anni di Tai Ji e mi venivano benino, ma altri intorno a me vedevo che non avevano la più pallida idea di una postura corretta, dei pesi ecc. Inoltre gli esercizi erano piuttosto complicati ed io ero già abituata non solo ad imparare, ma anche ad insegnare e sapevo quanta fatica si fa per eseguire e far eseguire correttamente un movimento. Eppure, ad un certo punto, mi resi conto che tutti e mille ci muovevamo in una sincronia perfetta. Eravamo come un solo corpo, una sola mente, un’unica energia. Allora mi fermai spaventata. Mi guardai intorno. Ebbi l’impressione che fossimo come tanti burattini, un’energia fortissima stava guidando i nostri corpi e i nostri movimenti. Dove ero io? Dove era il mio cuore? Uscii ed iniziai a vagare per la città, fino a quando vidi una libreria specializzata nel buddismo. Aveva testi, immagini, mandala. Un meraviglioso e dolce profumo d’incenso. Ricordo ancora perfettamente la sensazione di quel momento. Il cuore si sentì tornare a casa, al sicuro. Era il cuore che cercavo, il mio cuore, non un’ energia che in fin dei conti mi aveva lasciata sola per tutto quel tempo, aveva abbadonato la mia bambina al suo dolore ed alla sua solitudine, l’aveva maltrattata ed ignorata.
Le cose erano mature e tutto iniziò cambiare così velocemente che quasi stentavo a capirlo io stessa. Smisi di fare Taiji. Compiere quel semplice gesto con il quale iniziavano tutte le forme di tirare su e giù le due braccia, mi faceva salire un insieme di ansia, rabbia e dolore dal quale mi tenevo rigorosamente alla larga. Fu un periodo difficilissimo, ma il pallino bianco che nasce nel nero e nell’oscurità si vide subito. Da un giorno all’altro mi passarono le intolleranze alimentari e ricominciai a mangiare come tutti gli altri esseri umani. Dopo qualche mese di immobilità, il mio corpo iniziò però a strepitare. Disgraziata, mi gridava, perché mi vuoi rinchiudere di nuovo in prigione? Stare senza allenarmi era semplicemente impossibile. Una vera sofferenza. Andai qualche volta a Piazza Vittorio, in cerca di compagni di pratica diversi, che mi evocassero esperienze e sensazioni diverse. Ma la loro pratica non faceva per me. Così lasciai stare. Vivevo con un’amica, maestra di cristalloterapia e molto sensibile all’energia, che mi vedeva tutti i giorni annaspare per cercare di non affogare tra i flutti delle emozioni che mi sopraffacevano e di quella mia vita che sentivo andare a rotoli. Un giorno stavamo facendo una gita al lago di Bracciano ed io iniziai ad allenarmi, all’ombra di un salice. Lei rimase senza parole e mi disse quasi piangendo che quei miei movimenti lasciavano uscire da me un’energia completamente diversa. Un’energia alta, grande, che le metteva quasi soggezione e la commuoveva. Qualcosa che creava un contrasto infinito con la fragilità quasi bambina che evocavo solitamente. Mi stava confermando qualcosa che io stessa avevo sentito. Quella mia pratica, risorta dalle ceneri di tanto dolore, sapeva evocare, come una lampada di Aladino, una parte di me che non sospettavo neanche di avere. Così decisi che il Taiji non doveva necessariamente essere tutto quello dal quale ero scappata. Poteva essere qualcosa di mio, che oramai mi apparteneva. Iniziò il mio periodo da “rônin”, i samurai senza padrone. Non avevo più un maestro. Mi allenavo da sola la mattina prestissimo dalle 4,30 alle 6,30, poi andavo a lavoro. Il sabato pomeriggio avevo il permesso di allenarmi nella palestra dell’Upter Sport di Via dei Pontefici, dove avevo iniziato ad insegnare. Studiavo davanti allo specchio correggendomi da sola. Fu proprio in uno di quei sabati pomeriggio che ebbi un’illuminazione. Guardai il mio bacino comunque chiuso, comunque contratto, che non riusciva a cedere, a lasciare andare, a respirare e rilassarsi e mi dissi: Perché non ti vai a fare una passeggiata in mezzo alla gente e ti guardi qualche vetrina? In sostanza avevo capito che la “tecnica”, per quanto assidua e piena di intento e delle migliori intenzioni, non mi avrebbe aiutata a fare quell’ulteriore passo di scioglimento di cui il mio bacino e la mia energia avevano bisogno. Serviva altro. Qualcosa che non avrei trovato in una palestra. In sostanza avevo intuito da sola quello di cui poi trovai conferma in Lowen e altri testi: l’energia non può cambiare se non cambiano i sentimenti che la determinano, se non cambia l’insieme della vita. Se dentro di me viveva una bambina nascosta, impaurita, che non lasciava andare nulla per paura di sentire dolore, come poteva l’energia sciogliersi e fluire davvero liberamente?
…. Nel frattempo Cristiano stava modificando il Taiji per liberarlo da quella componente di performance, prestazione, competizione e potere che io avevo così sofferto e portarlo vicino al cuore, alla parte più delicata ed autentica di ognuno di noi. Così ripresi lentamente la pratica con lui, in un lavoro difficilissimo che chiedeva infinita umiltà. Ero più principiante dei principianti, perché i tanti anni di pratica condizionavano così profondamente il mio apprendimento, che la mia energia finiva sempre per impostarsi su un programma di performance e prestazione, di ricerca della perfezione. Era come posare una pallina su un piano inclinato. Inevitabilmente iniziava a sciolare verso il basso. La mia bambina, il mio cuore, restavamo sempre fuori. Dispiaciuti e frustrati, senza sapere neanche da dove iniziare per poter cambiare qualcosa. …
Di tutto quello che avevo fatto fino a quel momento potevo salvare alcune ed isolate cose, come la circolazione di base dell’energia ed alcune conoscenze tecniche. Del resto dovevo liberarmi di tutto. Cominciare tutto da capo. Ricordo i mie primi tentavi goffi in pineta. Io che avevo fatto forme su forme, che mi ero sentita piuttosto bravina, ero lì come una principiante a provare semplici movimenti. Provavo a metterci dentro la mia fragilità, la mia paura, come se fosse stato il compito più arduo del mondo. … Passai così diversi anni, in cui la pratica era per me ricerca, esercizio di umiltà….
Con il passare del tempo capii sempre di più che cambiare la propria energia voleva dire cambiare tante cose. Il mio bacino, la posizione delle mie ginocchia, delle spalle e di ogni singolo gesto o espressione del mio corpo potevano cambiare solo se fossi riuscita a cambiare e trasformare la piccola Barbara che ci viveva nascosta dentro. Se fossi stata meno severa con lei, se non avessi preteso tanta perfezione, se le avessi concesso di sentirsi in diritto di vivere e stare bene anche se sbagliava, se non era efficiente, se non era utile. Se le avessi sottoscritto il diritto semplicemente ad essere, allora si sarebbe sentita un po’ meno in pericolo di lasciare la presa ed il controllo sul fare. Ma per questo tipo di cose, nella mia esperienza, non basta un giorno, una comprensione, un’illuminazione. E’ un cammino tanto lungo, fatto di salti avanti, di capitoboli e sconfitte, di piccoli passi. Molti erano gli elementi che mi impedivano di cambiare. … Con il mio schema nella mente, che con gli anni si era impresso anche al corpo, appena mi avvicinavo ad una postura od un gesto “forte”, sentivo scattare tutti i miei campanelli interiori che mi dicevano “pericolo”, torna in dietro. Se vai avanti così saranno guai. Per questo, cambiare anche semplicemente la posizione di un ginocchio, che avrebbe reso la posizione più forte, era un’impresa davvero ardua.
In quegli anni di ricerca personale la mia pratica iniziò però lentamente ad essere un rifugio, una specie di nido accogliente in cui potevo ritrovarmi. Mentre la mia testa continuava vorticosa, tra alti e bassi, tra indecisioni e debolezze, praticando iniziai a contattare ed a sentire con sempre maggiore chiarezza la mia energia che si alzava al di sopra di tutti quei trambusti e respirava tranquilla, lontana dalle ansie, dalle angosce e paure della piccola Barbara. La differenza tra quello che sperimentavo nella vita quotidiana e nella pratica, iniziava ad essere davvero abissale. A volte iniziavo a praticare trovandomi ad un passo dall’esaurimento, dall’ansia, dalla stanchezza. I problemi mi sovrastavano e mi toglievano il respiro. Poi, quando arrivavo ad iniziare la palla, tutto era già diventato più possibile. Durante la palla sentivo semplicemente che quei problemi non erano più problemi. Non so come spiegarlo meglio. C’erano, restavano lì dove li avevo lasciati, eppure in qualche modo non mi toccavano più. Non mi angosciavano, non avevano più nessun potere su di me. Allora iniziai davvero a rendermi conto di quanto fosse importante per me praticare. Che differenza dal tempo in cui la palla tirava fuori solo il mio pianto ed il mio dolore! In quei difficili anni il dolore era stato tirato fuori in tanti modi, era venuto alla luce, aveva parlato di sè, era stato almeno in parte accolto e riconosciuto. … Da allora la pratica è il mio più grande tesoro. La mia guida, a volte davvero l’unica strada che posso percorrere in pace e serenità con me stessa e con il mondo. E’ il luogo in cui trovo le mie risposte, è il mio paese dell’anima, dove posso entrare in contatto con quella parte di me più libera dalle catene del karma e dalle vicende che la vita ha impresso nella mia carne e nella mia testa. Quando penso di potermi trovare in difficoltà, il mio primo pensiero va subito alla pratica, il mio antitodo ai vari veleni della vita. Nel mio diario dell’ultimo viaggio in Africa ho scritto: “Djennè; Hotel Mafir. Stamattina mi sono allenata in giardino. Che bello risentire il corpo che si scioglie ed il peso di tutti i pensieri ed i legami karmici che si allenta in tanti cerchi che si uniscono come quelli puri e semplici degli alberi, del vento, degli uccellini che beccano e svolazzano, delle foglie che cadono, della polvere che vola”.
(Roma, Maggio 2012)